Autore: Paolo Repetto Data: venerdì, 30 novembre 2012
I dati diffusi dal governo sul numero di bambini ospitati nelle ‘comunità alloggio per minori’ hanno suscitato reazioni polemiche. Esiste un business attorno alle strutture di accoglienza? Chi lo ‘alimenta’ eventualmente? Il confronto tra gli operatori del settore e il caso del ‘Forteto’ di Firenze.
Il rapporto diffuso pochi giorni fa dal governo su “bambine e bambini temporaneamente fuori dalla famiglia d’origine” ha suscitato indignate interpretazioni da parte di alcune realtà associative che si occupano dei diritti dei minori . Il ‘sistema’ delle case-famiglia – perché così viene presentato – risulterebbe agli occhi dei più critici come un’oliata macchina mangiasoldi alle (e sulle) spalle dei contribuenti oltreché dei più indifesi.
In particolare, secondo l’associazione Adiantum, con le risorse destinate ogni anno alle strutture di accoglienza dei bambini si potrebbero sostenere preventivamente le famiglie in difficoltà piuttosto che foraggiare comunità ‘inutili’ e pagare stipendi ai loro operatori.
La medesima associazione, che racchiude vari enti impegnati nella tutela dei minori, ieri ha rincarato la dose, ospitando sul suo sito l’opinione di Nazareno Coppola, vice presidente del Cofamili Onlus (Coordinamento Case Famiglie per minori della Liguria) e responsabile della Casa Famiglia Pollicino di Imperia: “Noi siamo una vera casa famiglia – spiega l’interessato – quel tipo di struttura di accoglienza dove al suo interno vivono stabilmente un marito e moglie che per scelta vocazionale hanno deciso di vivere l’accoglienza e la condivisione e il più delle volte a titolo gratuito”.
Coppola sostiene di non percepire denaro per sostenere la sua struttura “e la nostra associazione basa la sua esperienza sulla Provvidenza”. Si definisce “spaventato” dalle cifre del business attorno alle comunità alloggio per minori “e posso assicurare che non mi risulta che in Italia esistano Case Famiglie (quelle vere!) con rette da 180 euro al giorno”.
Da una parte opererebbero dunque case di accoglienza sostenute dalla ‘provvidenza’ (divina), dall’altra “comunità educative e non case famiglia: ci teniamo che i loro sporchi business – taglia corto Coppola – non vengano confusi con l’impegno quotidiano che le coppie delle case famiglie mettono al servizio dei bambini accolti”.
A Coppola (e più in generale alle tesi di Adiantum), replica deciso Massimiliano Porcelli, presidente di Utopia2000 onlus, comunità alloggio per minori con sede a Bassiano (vicino a Latina) che ospita minori in difficoltà (tra cui molti bambini di etnia romanì) e adolescenti provenienti dal ‘penale’, insieme a famiglie in cerca di un faticoso reinserimento sociale.
“Bisognerebbe distinguere – spiega Porcelli ad InviatoSpeciale – tra la posizione di chi ritiene che il settore delle strutture di accoglienza per minori sia un settore discutibile, modificabile o, nei casi più critici, del tutto inutile e quella di chi, come nell’articolo pubblicato su Adiantum, getta fango su un intero mondo (fatto anche di professionisti e persone per bene) sulla base di posizioni precostituite attraverso banalissimi luoghi comuni”.
Nel primo caso, argomenta il presidente di Utopia2000, “i primi a beneficiare di una discussione seria, competente e serena sarebbero paradossalmente proprio tutti gli operatori del settore, ivi compresi magistrati, psicologi e assistenti sociali che, nella gerarchia delle competenze, ricoprono un ruolo decisamente superiore a quello delle Comunità. Altra distinzione andrebbe operata, e qui ci si potrebbe immettere in un discorso più ampio, a proposito di come opera nel suo complesso il mondo del welfare…”.
Porcelli si riferisce alla polemica del suo ‘collega’ Coppola: “C’è chi ritiene che la solidarietà debba essere un fatto puramente vocazionale, fondato cioè semplicemente sul buon cuore e la volontà dei singoli, e chi come me invece ritiene che debba essere un fatto marcatamente istituzionale; basato cioè su organizzazioni professionali che l’ordinamento giuridico prevede per dare certezza alla tutela dei diritti fondamentali delle persone, con particolare riferimento ai minori con disagio sociale”.
A tutto questo, Porcelli aggiunge in conclusione “la necessità di attivare rinnovati meccanismi di controllo e vigilanza, basati non sugli eventuali sovrannumeri o sui metri quadrati degli ambienti utilizzati, ma sull’effettiva efficacia dei progetti individuali adottati per le casistiche specifiche”.
I ‘meccanismi di controllo e vigilanza’ cui accenna il presidente della comunità di accoglienza di Bassiano dovrebbero riguardare in primo luogo i soggetti istituzionali i quali si occupano professionalmente di minori a rischio, che nella catena delle responsabilità giungono ben prima dell’ultimo anello, rappresentato dalle case-famiglia. Mettere ordine nelle ‘gerarchie’ è opportuno per un semplice motivo: la decisione di collocare un bambino in una struttura ‘protetta’ viene disposta dai servizi sociali (chiamati ad effettuare la ‘diagnosi’), i quali coinvolgono i tribunali per i minorenni nei casi più gravi o comunque laddove si richiedano provvedimenti rilevanti sul terreno giudiziario.
Sono peraltro gli stessi Comuni, quelli in cui risiedono i minori seguiti dai servizi sociali, a versare le quote di sostentamento dei bambini alle case-famiglia. E’ certamente accaduto che si siano verificate in più di un’occasione anomalie o addirittura ruberie, ma il percorso del malaffare è assai più tortuoso di quanto ipotizzato da Adiantium.
Un esempio emblematico dell’intreccio non sempre limpido tra pubblico e privato è stato fornito recentemente dalle cronache fiorentine, a proposito della comunità del Forteto. “Dietro l’immagine artefatta di una struttura dove la magistratura e i servizi sociali s’inchinavano inspiegabilmente e facevano finire minori problematici di ogni sorta – racconta l’edizione online del quotidiano La Nazione del 5 ottobre – c’era una silente associazione finalizzata a violenze proprio nei confronti di chi si doveva proteggere e curare. E nessuno, per decenni, se n’è mai accorto. O è stato costretto a voltare la testa altrove, soggiogato psicologicamente dal fondatore della struttura, quel Rodolfo Fiesoli riguardo al quale chi doveva vigilare ‘si dimenticò’ addirittura di una condanna a due anni di reclusione, nel 1985, per maltrattamenti a una ragazza a lui affidata, atti di libidine violenta e corruzione di minorenne”.
La Regione Toscana, cogliendo evidentemente la gravità e la complessità della vicenda, ha istituito una commissione regionale d’inchiesta “sull’attività di affidamento dei minori a comunità e centri di accoglienza”, presieduta da Stefano Mugnai (Pdl) e Paolo Bambagioni (Pd). Durante un’audizione, la presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, Laura Laera, ha chiesto la riapertura di una serie di fascicoli: “Ci stiamo occupando – ha osservato la giudice – delle valutazioni di idoneità, che sembrano carenti, non ho visto dossier approfonditi, né valutazioni accurate delle coppie destinatarie di affidamenti”.
Dossier “poco documentati – ha commentato il giornale – relazioni dei servizi sociali scarne e molto diradate nel tempo, queste le carenze subito evidenti nella generalità dei casi” resocontate dalla stessa presidente del Tribunale per i minorenni, insediata nel suo ruolo da pochi mesi. Ed è un dato di fatto che l’istruttoria della commissione di inchiesta si sia “concentrata sulle responsabilità del Tribunale, il collegamento con i servizi sociali, la capacità di controllo, i punti deboli del sistema degli affidamenti”.
Le stesse conclusioni della giudice Laera lasciano spazio a poche interpretazioni: “L’inchiesta di questa commissione può rivelarsi l’occasione per ripensare come un modo di procedere si concretizzi in scarsi controlli collettivi. Le responsabilità sono sicuramente molteplici, personalmente sono impegnata, già prima di entrare in contatto con la vicenda del Forteto, a fare in modo che il tribunale possa attivare un meccanismo di controllo e non perda di vista il destino dei minori una volta disposto l’affidamento”.
Emblematiche le conclusioni del vicepresidente della commissione toscana di inchiesta Bambagioni: “Il quadro del deficit istituzionale emerge con chiarezza: carenze nella selezione delle famiglie, carenze nei monitoraggi successivi, frammentazione delle competenze: tutto questo ha reso possibile il perpetuarsi della vicenda del Forteto. Tutto questo ci dice come sia sempre più importante arrivare alla definizione di un protocollo tra le istituzioni che permetta di colmare questi vuoti”.
Dunque il tema della scarsità dei controlli, dell’assenza di monitoraggi e dei ‘vuoti’ che lasciano spazio alle nefandezze sulla pelle dei minori va ben oltre, anzi, viene prima delle dinamiche virtuose o perverse dell’accoglienza in una casa-famiglia.
Fonte e articolo completo qui: http://www.inviatospeciale.com/2012/11/i-bambini-in-difficolta-e-il-capro-espiatorio-delle-case-famiglia/