Estratti dell’articolo “Il negazionismo dell’abuso sui bambini, l’ascolto non suggestivo e la diagnosi possibile” di Claudio Foti(*)
“LA NEGAZIONE E’ INTRINSECA ALLA VIOLENZA..
NON C’E’ VIOLENZA SENZA NEGAZIONE, NON C’E’ VIOLENZA SENZA NEGAZIONISMO“
[…] Che l’abuso dei più forti sui più deboli, dei più grandi sui più piccoli esista e sia diffuso – come più oltre approfondiremo – è una prima amara verità, che non è semplice accettare. Ma una seconda verità, connessa alla violenza, rischia di non essere compresa: quella in base a cui ogni violenza tende strutturalmente ad essere negata ed occultata nella sua consistenza e nelle sue conseguenze. Questa negazione e quest’occultamento si consumano a tre livelli: a) da parte degli autori della violenza che tenteranno in ogni modo di nascondere le tracce, per restare innocenti ai propri occhi ed impuniti; b) da parte del testimone che tenderà spesso a voltarsi dall’altra parte per non essere coinvolto emotivamente e per non essere chiamato in causa nel conflitto scatenato dalla violenza; c) da parte della stessa vittima, che cercherà di allontanare e di evacuare dalla propria mente il peso di ricordi penosi e sconvolgenti connessi all’esperienza traumatica subita. La prima verità attinente al trauma infantile è, dunque, che esso esiste come rischio frequente: la violenza si può scatenare facilmente, laddove si manifesta quella sproporzione di forza, di potere, di età, di esperienza che caratterizza il rapporto tra le generazioni. La seconda verità è che il trauma tende a non essere pensato da parte degli autori, da parte dei testimoni e da parte delle stesse vittime. La stessa comunità scientifica è arrivata con forte ritardo e con forti resistenze a studiare e a classificare le sindromi post-traumatiche, a riconoscere e a considerare le reazioni traumatiche nei bambini; stenta tuttora ad avvicinarsi ai bisogni di cura dei soggetti traumatizzati e a riconoscere le dimensioni massicce della violenza ai danni dell’infanzia nelle sue diverse forme (psicologica, fisica, sessuale, istituzionale).
La negazione è intrinseca alla violenza. Non esiste guerra o sterminio senza un sistema di propaganda impegnato a dimostrare l’inevitabilità e la legittimità di quegli eventi o a sostenere che non si ha a che fare con guerra e sterminio, bensì con iniziative nobili e necessarie. Non esiste storia di un genocidio senza una schiera di negazionisti o revisionisti tesi a dimostrare che a ben vedere genocidio non c’è stato. Il furto di verità accompagna sempre l’appropriazione strumentale del corpo del bambino sin dalla fase
preliminare della seduzione da parte dell’adulto perverso con l’imbroglio e la manipolazione che preparano e consentono l’abuso. La negazione è costitutiva del trauma. L’abuso sui bambini in tutte le sue forme si produce in due tempi: c’è il tempo dell’azione in cui si consuma il maltrattamento fisico, il coinvolgimento sessuale, la squalifica o manipolazione psicologica ai danni del bambino; e c’è il tempo della negazione nel quale l’adulto abusante trasmette al bambino il messaggio metacomunicativo implicito od esplicito: “Non devi accorgerti che questa è violenza…”: “Non sono percosse, è che ti devo educare…”, “Non è sadismo, fa più male a me che non a te…” (per il maltrattamento fisico); “Non è abuso, sono coccole… e anche a te piace!”, “Non è abuso, ti sto facendo scoprire un
gioco meraviglioso…”, “Non è abuso, tutti i padri lo fanno…” (per l’abuso sessuale); “Non è che ti sto umiliando, il fatto è che te lo meriti…”; “Non è che ti sto espropriando del tuo bisogno di autonomia, è che ti voglio troppo bene…” (per la violenza psicologica).
LA MENTE UMANA DI FRONTE ALLA VIOLENZA E’ FALSIFICAZIONISTA
L’autore della violenza tende a quattro scansioni di negazione: 1. nega i fatti e – ciò che è più patogeno per la vittima – la percezione dei fatti da parte di quest’ultima (“non è vero niente”, “erano solo coccole…”, “te lo sei sognato…”); 2. nega la propria consapevolezza (“non me ne sono reso conto…”, “ero fuori di me…”); 3. nega la propria responsabilità (“era la bambina che me lo chiedeva”); 4. nega le conseguenze della propria azione (“in fondo non è successo niente di grave”). Ed ovviamente nega la negazione, ovvero nega il proprio tentativo di cancellare le tracce (“non devi accorgerti di tutto quello che ho fatto per fare silenzio attorno a questo abuso”). Peraltro l’elaborazione in sequenza di queste quattro modalità successive di negazione – sia in riferimento ai fatti di violenza compiuti, sia in riferimento ai fatti di violenza subiti nella propria infanzia – costituisce l’essenza del difficilissimo percorso psicoterapeutico degli abusanti. In ogni forma di abuso all’infanzia l’autore è spinto necessariamente a negare e ad attivare un sistema di supporters che lo aiutino a nascondere l’accaduto; il testimone, reale o potenziale che sia, è spinto a fare un passo indietro e a reagire con l’indifferenza; la vittima è spinta a rimuovere o a espellere dalla propria mente, parzialmente o interamente, i fatti accaduti e i sentimenti vissuti nel corso della sua vittimizzazione. Ai diversi livellidunque la verità della violenza si fa largo, necessariamente, tra grandi resistenze.
Il trauma è un’esperienza che tende ad eccedere la pensabilità nella mente della vittima; è un’esperienza che tende a travalicare non solo la capacità di ammissione da parte dell’autore, ma anche la capacità di percezione del testimone e la capacità di riconoscimento culturale della comunità sociale e, spesso, della stessa comunità scientifica. [… Di fronte agli eventi traumatici la reazione fisiologica della mente tende a priori ad essere falsificazionista e negazionista. La mente umana, non potendo accettare senza dolore, conflitto e resistenza fatti e situazioni che evidenziano la radicale impotenza del soggetto umano, reagisce automaticamente rifiutando di soffermare lo sguardo sulla realtà della violenza e del male. Questa è la ragione per cui la mente umana si volta dall’altra parte di
fronte alla verità della morte, della malattia, del trauma. Questa è la ragione per cui le atrocità della storia umana tendono a non essere credute, ricordate, documentate da parte degli stessi storici. Questa è la ragione per cui la pediatria ha impiegato decenni prima di poter stabilire un nesso fra le ecchimosi e le ossa fratturate dei bambini e l’ipotesi del maltrattamento fisico. Questa è la ragione per cui in genere l’ultima ipotesi che un’équipe di operatori prende in considerazione nella diagnosi del malessere di un bambino è quella della violenza ai suoi danni. Tanto più sconvolgente è l’ipotesi della violenza tanto maggiore è la reazione fisiologica dell’incredulità, la quale inevitabilmente ostacola o impedisce di trovare prove e conferme a quell’ipotesi.
TRAUMA, STORIA E SOCIETA’
La crescita di consapevolezza del fenomeno del maltrattamento all’infanzia procede attraverso diverse fasi temporali e attraverso il
superamento di successivi sbarramenti di resistenza: possiamo dire che abbiamo socialmente raggiunto un certo livello di consapevolezza, anche se non pienamente soddisfacente, sul fenomeno della violenza fisica; stiamo affrontando le fortissime e riemergenti resistenze a riconoscere l’abuso sessuale; evidentemente ci vorrà ancora parecchio tempo prima che la comunità adulta sia in grado di prendere coscienza e di responsabilizzarsi in modo adeguato sul fenomeno, ancor più diffuso e coinvolgente, della
violenza psicologica e su situazioni ancora sommerse quali per esempio gli abusi sessuali di gruppo. A quest’ultimo proposito, la prima verità è che gli abusi organizzati (ritualisticio finalizzati al traffico di materiale pedopornografico) esistono e sono diffusi; la seconda verità è che sono destinati a restare ancora a lungo sostanzialmente impensabili e pertanto socialmente inaffrontabili dal punto di vista preventivo e repressivo. All’inizio del suo libro su trauma e guarigione, Herman afferma: “La storia del trauma psicologico soffre di amnesia ricorrente. Il conflitto intrapsichico della vittima di un trauma tra tentativo di dimenticare e il non poterlo fare, si riflette nella comunità scientifica. Si sono alternate fasi di attiva investigazione a fasi di rimozione”
Nella comunità scientifica viene a riflettersi il conflitto tra il perpetratore e la vittima. Nell’epoca attuale si contrappongono duramente tendenze e controtendenze, spinte al riconoscimento dei diritti della vittime e spinte alla difesa degli abusanti. Per la Herman il dibattito nella comunità scientifica è centrato sul fatto se questi fenomeni siano credibili e reali. Periodicamente la questione del trauma diventa culturalmente interdetta e impensabile. Sul piano sociale il perpetratore, quando appartiene alle classi dominanti, come non di rado capita, usa i propri mezzi per promuovere silenzio e oblio e, se fallisce, tenta di attaccare la credibilità della vittima. Quest’ultima chiede invece di dividere il peso del dolore. Ma se la vittima, in quanto donna, in quanto bambino è già un soggetto debole e socialmente svalutato, la squalifica e l’isolamento rendono l’esperienza incomunicabile. Se la vittima non trova un ambiente sociale supportivo, soccombe. Il trauma è un’esperienza sovrastante le possibilità di pensiero e di parola della vittima: da sola non può reagire alla propria sofferenza e prendere in mano il proprio futuro. La vittima ha bisogno di un grande sostegno – sul piano pratico, informativo, emotivo – da parte degli altri ma, in quanto soggetto particolarmente sofferente e problematico, risulta tendenzialmente perdente, emarginata nella società e spesso nella stessa famiglia, inascoltata nel proprio dolore, nella propria impotenza e nella propria domanda di giustizia. Le problematiche e le istanze del soggetto traumatizzato sono destinate dunque ad essere scarsamente valutate dalla comunità sociale, tanto più prevalgono in questa tendenze conservatrici e modelli culturali basati sulla forza e sul privilegio. Tali problematiche e tali istanze cominciano ad essere considerate quando cresce una sensibilità politica e culturale di tipo democratico, quando emergono risorse di ascolto e di attenzione nei confronti dei più deboli. Gli sviluppi dell’attenzione clinica e scientifica alle problematiche dei soggetti traumatizzati sono stati storicamente sollecitati dai movimenti per i diritti umani capaci di esprimere valori democratici e solidaristici: l’interesse al tema dell’isteria femminile, dei reduci di guerra affetti da nevrosi traumatica, delle donne vittime di stupro, dei bambini vittime di violenze si sono sviluppati in relazione, rispettivamente, al movimento anticlericale e repubblicano francese della fine dell’800, in relazione al movimento pacifista sviluppatosi negli USA durante e dopo la guerra in Vietnam, in relazione al movimento femminista e al movimento contro l’autoritarismo patriarcale degli anni ’60 del secolo scorso.
IL NEGAZIONISMO DELL’ABUSO E LE SUE TESI
Il trauma infantile conseguente all’abuso è una verità che non può essere eliminata. Il trauma è una bomba ad orologeria se non viene elaborato: può essere rimesso in scena con le più svariate modalità per l’intera esistenza ed essere ribaltato e scaricato su altri bambini a distanza di decenni dalla sua genesi. Il trauma tende inevitabilmente ad emergere e riemergere attraverso il linguaggio dei sintomi e attraverso l’insopprimibile bisogno di trasformarsi in parola e diventare oggetto di narrazione. Nel contempo il trauma infantile è destinato ad essere contrastato da forti movimenti difensivi di rimozione, negazione, razionalizzazione, dissociazione. E non è solo il soggetto traumatizzato a dissociare l’esperienza stressante dell’abuso subito. È la stessa comunità a dissociare le dimensioni di violenza che risultano socialmente e culturalmente impensabili e indigeribili. In questa cornice, caratterizzata dalla dialettica conflittuale insita nel trauma, occorre collocare l’attuale dibattito sulla valutazione della attendibilità della presunta vittima di abuso sessuale e l’emergenza crescente di tendenze culturali, scientifiche ed istituzionali negazioniste.
Non c’è violenza senza negazione. Non c’è violenza senza negazionismoovvero senza che compaia un discorso coerente e articolato teso a sostenere la negazione con una varietà di argomenti. Il negazionismo dell’abuso sui bambini in generale e dell’abuso sessuale in specifico è una tendenza culturale e scientifica che, con apporti di diversa natura, consistenza e qualità, tende ad affermare:
1. la violenza all’infanzia non presenta dimensione massive e non rappresenta un’emergenza sociale;
2. una parte rilevante o addirittura maggioritaria delle denunce o dei ricordi di abusi sono falsi;
3. le campagne di prevenzione dell’abuso sono in qualche misura dannose, favorendo un eccesso di allarmismo in adulti, i quali poi rischiano di trasferire le loro ansie sui bambini, innescando così processi inducenti false accuse;
4. l’abuso è muto e non lascia tracce specifiche e decifrabili con certezza;
5. la suggestionabilità dei bambini è elevatissima e la competenza testimoniale del bambino presunta vittima dell’abuso è assai scarsa o nulla;
6. interviste mal poste hanno il potere di indurre falsi ricordi o addirittura di generare sintomi post-traumatici;
7. la memoria dei bambini in genere e dei bambini traumatizzati in particolare è inaffidabile;
8. dunque, anche quando esiste, l’abuso su un minore è impossibile o molto difficile da dimostrare;
9. l’ascolto del bambino in contesto forense deve escludere atteggiamenti di comprensione emotiva e di empatia;
10. non è dimostrato, né sempre certo il danno derivante ad un bambino da un rapporto sessuale con un adulto, meno che mai per un minore che ha raggiunto la pubertà.
Il negazionismo dell’abuso produce riflessioni, interpretazioni, schemi teorici o diagnostici che rappresentano una sfida culturale di grande rilievo per tutti gli operatori e gli studiosi impegnati nel contrasto alla violenza sui minori, sia perché i contributi di questa corrente hanno raggiunto una forte rilevanza nell’attuale contesto sociale ed istituzionale e sia perché spesso contengono al loro interno una mescolanza di: a) contenuti ideologici funzionali alla cancellazione della verità storica della violenza, al garantismo inteso come garanzia dell’impunità per l’abusante e alla negazione della rilevanza del trauma nella vittima e nella società; b) conoscenze adeguate e sollecitazioni realistiche, che possono essere distinte dalle finalità ideologiche e vanno apprezzate in quanto tali (per esempio, l’attenzione, ancorché strumentale, al tema della suggestione positiva ha portato alcuni autori a fornire indicazioni importanti per favorire la possibilità dei bambini di portare il proprio contributo testimoniale, riducendo l’interferenza di domande suggestive, induttive o anticipatorie; così come il tentativo negazionista di enfatizzare i deficit della memoria infantile, può sollecitare i professionisti ad una considerazione approfondita della complessità dei processi di decodifica, immagazzinamento e recupero dei ricordi infantili).
LA SCOMPARSA DEI FATTI: LA NEGAZIONE DEGLI ABUSI
La tesi basilare della cultura della negazione è la negazione della violenza sessuale sui bambini come emergenza sociale. “Accetta il mondo per quello che è veramente e non per come appare”, afferma il monaco tibetano Dugpa Rimpoce. E il mondo si pone ad un’analisi attenta e rigorosa, sgombra di pregiudizi illusori, intriso di pratiche di dominio e di perversione, che rimangono per lo più occultate, ai danni dei più piccoli. I clinici, attrezzati all’ascolto empatico dei loro pazienti, ben conoscono su un piano empirico la diffusione dell’abuso sui bambini, essendo abituati ad accogliere, magari dopo mesi o ad anni di psicoterapia, precisi ricordi di
violenze, latenti o manifeste, avvenute nell’infanzia dei loro pazienti e a verificare effetti d’integrazione e benessere di straordinario rilievo a seguito della narrazione ed elaborazione terapeutica di questi ricordi. Ma è dalle interviste retrospettive che si può avere un quadro statisticamente realistico e sconvolgente di quali possono essere le dimensioni della violenza sommersa che pesa sui bambini e sugli adolescenti. In tali interviste si interroga, sollecitando la confidenzialità e garantendo l’anonimato, un campione di popolazione giovanile oppure adulta sui ricordi risalenti all’infanzia e all’adolescenza. Attraverso questo strumento si possono definire le eventuali violenze ricordate dal campione e si possono inoltre valutare quante di queste sono state rivelate e denunciate e quante invece sono state mantenute nel silenzio e nella segretezza. L’intervista retrospettiva non favorisce motivazioni a mentire negli intervistati: se anche alcuni intervistati potrebbero in casi limitati collocare nella rappresentazione del proprio passato abusi inesistenti, questo dato risulterebbe ampiamente compensato da un altro elemento che può influenzare il risultato della ricerca, nel senso di una sottostima e non già di un’amplificazione del fenomeno: molti intervistati infatti potrebbero negare abusi rimossi e dissociati dalla loro consapevolezza. La ricerca di Diane Russel (1983), condotta negli Stati Uniti ha avuto un’importanza storica per l’epoca in cui s’è svolta e per l’approfondimento delle interviste, evidenziando una percentuale del 38% di abusi avvenuti prima dei 18 anni e del 28% prima dei 14 anni. La ricerca condotta da Kelly, Regan e Burton in Gran Bretagna (1991) rilevò all’interno del campione, costituito da 1244 studenti fra i 16 e i 21 anni, che il 21% delle femmine e il 7% dei maschi dichiararono di aver subito almeno un’esperienza di abuso consumatosi con contatto fisico. Recentemente un’importante e rigorosa ricerca retrospettiva compiuta dall’Istituto degli Innocenti di Firenze su un campione di 2200 donne per valutare l’incidenza dell’abuso sessuale del maltrattamento in età minorile nella popolazione femminile adulta in età compresa dai 19 ai 60 anni ha permesso di stimare che il 5,9% di tale popolazione ha patito una qualche forma di abuso sessuale, il 18,1% ha esperito sia eventi di abuso sessuale che di maltrattamenti, mentre il 49,6% ha vissuto una qualche forma lieve, moderata e grave di maltrattamenti (qualificati come ESI: esperienze sfavorevoli infantili). Le vittime tendono inevitabilmente a rimuovere e non già a comunicare la violenza subita. Per quanto riguarda le esperienze di maltrattamento“chi ne ha parlato l’ha fatto prevalentemente con il partner e con gli amici (25,9%): i genitori non sono punti di riferimento (con la madre parla il 5,5% e con il padre l’0,9%)”. Solo una ridottissima percentuale (2,9%) ha denunciato all’autorità giudiziaria l’abuso sessuale subito. Se ci si basa sulla percentuale emergente da questa analisi e se si tiene conto che il numero medio di vittime per gli atti sessuali ex lege n. 66/1997 ricavabile dalle segnalazioni all’autorità giudiziaria (nel triennio 2002-2044) è di 709 minori si può ipotizzare una cifra di 23.633 bambini vittime in Italia annualmente di abusi sessuali, una cifra che non si discosta molto da quella – tra i 10.500 e 21.000 – ipotizzata dal rapporto CENSIS sulla violenza sessuale in Italia (1998). […]
Dati tanto allarmanti finiscono per passare sotto silenzio e scivolare nel dimenticatoio, invece di suscitare un’ondata di sdegno collettivo, una forte spinta alla riflessione e all’assunzione di responsabilità, ferme prese di posizione istituzionali e politiche. Possiamo dunque riprendere e ribadire la tesi di partenza. È necessario, anche se mentalmente impegnativo, prendere atto di due penose verità: a) l’abuso sessuale sui minori è un fenomeno che ha dimensione endemiche nella nostra cultura; b) nonostante le sue
dimensioni massicce, il fenomeno è destinato per molti aspetti a restare sommerso ed impensabile. Può risultare ancora più arduo assumere una posizione di accettazione consapevole (e non rassegnata) della seconda verità più ancora che della prima.
LE FALSE ACCUSE: DA PROBLEMA CLINICO AD ARGOMENTO IDEOLOGICO
Nell’esame dei casi specifici, l’ipotesi della falsa accusa va sempre presa rigorosamente in considerazione ed esaminata nelle sue diverse varianti legate al possibile fraintendimento da parte del bambino o dell’adulto che sostiene la denuncia, alla possibile induzione conscia e inconscia da parte di un adulto presente nell’ambiente di vita del minore e alla possibile volontà di mentire del bambino stesso. Le false denunce di abuso rappresentano una questione clinica e diagnostica, di grande rilievo e a cui prestare la massima attenzione. Per questo ce ne siamo occupati e continueremo ad occuparcene. Le false accuse risultano nell’esperienza
degli operatori piuttosto rare tra i bambini in età prescolare (tra l’1,7% e il 2, 7%), mentre tendono ad aumentare negli adolescenti (tra l’8 e il 12,7%)16. D’altra parte le false accuse costituiscono sicuramente un fenomeno fortemente enfatizzato ai fini di negare l’evidenza della diffusione degli abusi. In una ricerca realizzata in Canada sono stati analizzati 7.672 casi di maltrattamenti su bambini segnalati ai servizi sociali: solo il 4% di questi casi era costituito da false denunce. In presenza di conflitti per l’affido dei figli dopo la separazione, questa proporzione era più elevata, il 12%. L’oggetto principale delle false denunce era tuttavia la
grave trascuratezza e non l’abuso sessuale.
In molte vicende di rivelazioni infantili di abusi, il mondo emotivo del bambino si deteriora e si accrescono in lui sofferenza e confusione con esiti di ritrattazione o di aggravamento della patologia. Spesso il bambino, dopo aver prodotto un’infinità di comunicazioni verbali, espressive e sintomatiche relative alla violenza subita, è lasciato solo, abbandonato al proprio conflitto
interno e alle pressioni dell’abusante ed inoltre la madre o gli adulti che sostengono la sua rivelazione non sono aiutati ad elaborare le proprie dilaganti ansie e difficoltà a reggere l’impatto con il trauma del bambino. Queste situazioni diventano casistiche indecidibili dal punto di vista valutativo e falsi positivi dal punto di vista statistico: in queste situazioni al danno segue una tragica beffa! Dopo l’espropriazione del corpo e dell’anima del bambino, si registra anche un’espropriazione della verità ai suoi danni! I dati relativi alle false accuse non possono inoltre basarsi sulle archiviazioni e sulle assoluzioni giudiziarie. Non si può considerare il responso giudiziario come un fondamento di verità clinica e sociale, confondendo la verità giudiziaria con quella scientifica e dimenticando che la prima necessariamente deve tenere conto, giustamente ed inevitabilmente, del parametro delle prove ed inoltre risulta spesso condizionata vuoi da modalità d’indagine e processuali che tengono assai poco in considerazione le comunicazioni dei bambini, vuoi dalla scarsa preparazione psicologica dei giudici. “Anch’io sono un falso positivo! Sono andato da bambino davanti al giudice a denunciare l’abuso subito da mio padre, il giudice non mi ha creduto e io sono diventato un falso positivo”, ha scritto Andrea Coffari. Anche se il bambino abusato di ieri è cresciuto ed
è oggi diventato adulto, avvocato e padre di famiglia, anche se ha mantenuto e ha reso più credibile la propria testimonianza infantile con la propria maturazione e la propria testimonianza autobiografica, statisticamente rimane un soggetto che ha effettuato una rivelazione classificata come falsa, in quanto non presa sul serio dalle istituzioni giudiziarie.
Non è possibile avviare nessun serio discorso scientifico e clinico sulle false accuse concernenti abusi sessuali sui bambini prescindendo da una riflessione sulla resistenza sociale, ideologica ed emotiva nei confronti del riconoscimento dell’abuso sessuale sui bambini. Tale resistenza si manifesta su piani diversi: attacca e mette in difficoltà coloro che prendono sul serio le denunce dei bambini; sollecita talvolta i giudici ad archiviare piuttosto che ad approfondire; invita spesso i periti non solo alla prudenza ma anche all’opportunismo; tiene in vita pregiudizi scientificamente obsoleti; orienta correnti di psicologia sperimentale, interessate ad evidenziare in ogni modo l’incompetenza e la suggestionabilità dei bambini. Il problema delle false accuse può e deve essere affrontato come problema clinico non solo per proteggere adulti colpiti ingiustamente da denunce infamanti e distruttive, ma anche nell’interesse dei bambini coinvolti nella falsa accusa, i quali subiscono una gravissima forma di violenza e di strumentalizzazione psicologica. Ma questo compito può essere svolto se contestualmente vengono mentalizzate e contrastate le pressioni sociali e ideologiche che puntano ad enfatizzare il fenomeno dei falsi positivi, impedendo un approccio attento e rispettoso ad ogni vicenda individuale.
La nuova resistenza sociale e culturale al riconoscimento dell’abuso sessuale ai danni dell’infanzia viene ad esercitare la propria influenza negativa sugli operatori, aggiungendosi ai condizionamenti psicologici di sempre, che rendono difficile l’accostamento emotivo e cognitivo alla sofferenza infantile. Così, nonostante l’indubbia crescita negli ultimi decenni di una capacità sociale di percepire il fenomeno dell’abuso sessuale sui minori, permangono nelle istituzioni e nella comunità adulta atteggiamenti di cecità e di sordità diffusa nei confronti di quei segnali di malessere infantile, che possono rinviare a situazioni di violenza sessuale; aumentano spesso la paura e la tendenza alla delega degli operatori di fronte a casi di presunta violenza su bambini; si rinnovano tendenze a rifiutare attenzione ed ascolto a processi di rivelazione, soltanto perché non appaiono immediatamente sostenuti da riscontri evidenti.
“È evidente – scrivono Malacrea e Lorenzini – che se un falso credito dato a un sospetto abuso darà inizio ad un iter che passerà la situazione a più setacci, a maglie sempre più fini (sia attraverso percorsi clinici che giudiziari), con alte probabilità di correttivi in itinere che arriveranno a determinare un giudizio finale corretto, quando un presunto abuso suscita istintivo discredito succederà l’opposto. Esso verrà infatti lasciato cadere prima di ogni vaglio approfondito e quindi non potrà trovare quei correttivi che potrebbero orientare realisticamente il giudizio. Sappiamo del resto come sia tutt’altro che raro che situazioni di abuso abbiano alle spalle, prima di imporsi all’attenzione degli operatori, storie di mesi o anche anni in cui segnali più deboli erano stati lasciati cadere con processi decisionali basati su valutazioni approssimative o istintive. Date queste condizioni, la corrente scientifica che avvalora una giusta prudenza in vista del rischio di creare falsi positivi rischia di trasformarsi in cortocircuito che spinge a “diffidare” comunque, senza possederne analiticamente le ragioni. E quindi, in definitiva, si arriva ad incrementare il numero di falsi negativi, pur nello sforzo in buona fede di evitare i falsi positivi”.
RADICI EMOTIVE E RIFERIMENTI IDEOLOGICI DEL NEGAZIONISMO
“Gli abusi non possono esistere o non sono così diffusi perché il mondo non può essere così cattivo ed incontrollabile”, “Quell’indagato non può essere colpevole, perché è troppo simile a noi … la sua immagine positiva è per noi consolidata”, “Non può essere che tanta violenza possa colpire bambini così piccoli”: le radici emotive del negazionismo sono legate al bisogno, presente in maggiore o minore misura nella mente di ogni membro della società, di mantenere una rappresentazione idealizzata della comunità e della mente umana, negando le dinamiche di sadismo, perversione e follia circolanti sul piano sociale e psichico. Il negazionismo si fonda inoltre sull’esigenza emotiva diffusissima di togliere lo sguardo dalla realtà di impotenza e di potenziale rischiosità che
caratterizza la condizione infantile e più in generale la condizione umana. Il dolore dei bambini abusati non è un bello spettacolo! Il soggetto traumatizzato rappresenta, personifica, evoca la fragilità e la debolezza della condizione umana, ricordandoci quanto possa incombere sulla nostra esistenza il cambiamento imprevedibile, estremo e distruttivo. Esistono poi radici psicologiche ed emotive di altra natura: nella nostra cultura la sessualità tende ad essere esaltata in quanto tale (soprattutto nell’immaginario maschile), indipendentemente da una riflessione sulle sue conseguenze ed indipendentemente dagli aspetti relazionali ed affettivi, connessi al rapporto sessuale. La cultura e l’etica della mortificazione della carne sono state accantonate e sopravanzate dalla cultura e dall’etica della glorificazione del corpo. Su questo terreno si possono sviluppare simpatie emotive, consce ed inconsce, verso la ricerca del piacere sessuale come valore sempre e comunque positivo e tendenze a negarne le conseguenze deleterie. Il negazionismo dispone di supporti ideologici espliciti ed impliciti. Tra i primi il più evidenziato è quello del garantismo per gli indagati e gli imputati. Su questo principio indiscutibile ci può essere soltanto piena condivisione e richiesta di coerenza: il garantismo deve essere esteso al rispetto dei diritti formali e sostanziali dei bambini coinvolti nel processo. Come si può per esempio pretendere di privare completamente il cittadino bambino del suo diritto di essere informato sul significato dell’audizione protetta che lo coinvolge? Come può essere ancora negato, come avviene nella stragrande parte dei casi, il diritto all’assistenza e alla cura dei bambini chiamati a renderetestimonianza?
Ma l’ideologia più profonda del negazionismo è implicita: sotto la copertura di teorie scientifiche o presunte tali viene rilanciato l’antico stereotipo del bambino tendenzialmente bugiardo e babbeo, cognitivamente incompetente anche per ciò che concerne le esperienze e le sensazioni corporee (“Per un bambino – afferma Gulotta – il fastidio dato da una supposta piuttosto che da un dito nel sedere è difficile da decodificare nell’un caso come fatto di tipo terapeutico, nell’altro di altro significato”.
Viene proposta, al di là di una valutazione psicologica specifica, l’immagine di un bambino, completamente privo di una soggettività
autonoma, incapace di interazioni attive e pronto ad introiettare acriticamente le informazioni, anche quelle implicite, contenute nelle più innocenti domande di qualsiasi adulto lo intervisti, dal momento che “ogni adulto è per un bambino un soggetto autorevole”. Questo bambino, anche in assenza di una patologia specifica della propria psiche o del proprio ambiente relazionale, risulta sempre e comunque compiacente, al punto tale da manipolare senza rendersene conto la propria narrazione e di conseguenza la propria memoria e la propria idea di se stesso, al punto tale da costruire e mettersi a raccontare violenze mai avvenute, convincendosi nel tempo di fatti precisi e circostanziati, in realtà inesistenti. Si delinea la rappresentazione di un bambino esattamente contrario al bambino competente ed attivo che viene descritto dalla psicopedagogia contemporanea…
VEDI ARTICOLO INTEGRALE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI, QUI
http://www.cshg.it/Documenti/InterventiDownload/Negazionismo.pdf
(*) CLAUDIO FOTI:
Direttore scientifico del Centro Studi Hansel e Gretel di Torino
Psicologo, psicoterapeuta, psicodrammatista. Supervisore equipe psicosociali interventi sul maltrattamento
Corso di perfezionamento per operatori di contrasto alla violenza ai minori. Fondazione Maria Regina (Teramo) – Università Pontificia Auxilium Roma. Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza
CTU e perito presso Uffici giudiziari Torino, Pinerolo, Biella, Milano, Roma,Tivoli, Napoli, Salerno, Palermo, Cagliari, Brindisi, Pesaro
Autore di diverse pubblicazioni sui temi dell’ascolto, della cura, della prevenzione del disagio dei minori, della valutazione psicologica forense.
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