26 Dicembre 2015
ESTRATTO DELL’ARTICOLO “Responsabilità medica e danni risarcibili”
[…] Nei paragrafi precedenti abbiamo visto che l’art. 32, co. 2, Cost. dispone che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, aggiungendo che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Si tratta di una norma di chiusura rispetto a quella dettata dal comma 1 dello stesso articolo. Infatti:
— il comma 1 riconosce il diritto alla salute in capo a ciascun individuo e aggiunge che la tutela di tale diritto va perseguita nell’interesse della collettività;
— il comma 2 limita, per così dire, il potere di tutela spettante allo Stato subordinandolo al consenso della persona la cui salute si vuole tutelare e prevedendo una riserva di legge per le ipotesi in cui, nell’interesse della collettività, si debba procedere anche contro la volontà del dissenziente, nonché fissando, anche in tale ultimo caso, il limite invalicabile del rispetto della persona umana.
Il congegno normativo sopra delineato, dietro la sua apparente chiarezza, in realtà finisce per affermare un principio che non appare di facile e intuitiva comprensione, laddove, rendendo disponibile il diritto alla salute, finisce per subordinare l’interesse della collettività (in funzione del quale quel diritto era stato riconosciuto) all’autodeterminazione del singolo.
Accade, così, che il dettato costituzionale, nato dall’esigenza di evitare illecite interferenze dei pubblici poteri nella sfera del singolo, sia stato incongruamente interpretato come una sorta di magna charta degli autolesionisti e dei suicidi.
Nell’ipotesi di trattamenti sanitari nei confronti di soggetti dissenzienti per motivi religiosi o politici, si è ritenuto che la libertà religiosa o politica, pur espressa con il rifiuto di terapie indispensabili per consentire il mantenimento in vita, essendo prevalente rispetto ad altri diritti di libertà, possa consentire il danneggiamento o la distruzione dell’integrità fisica del dissenziente.
In quest’ottica, si ritiene che la libertà religiosa o politica non possa mai essere derogata e debba a ogni costo prevalere nel contrasto con altri diritti costituzionalmente garantiti (il diritto alla salute) e, più in generale, con altri principi di rilevanza costituzionale.
In realtà, non è affatto vero che il cittadino goda di una libertà illimitata nel perseguire l’osservanza del proprio credo religioso o politico, che è costituzionalmente garantito solo nell’ipotesi in cui non interferisca con diritti aventi pari dignità costituzionale e non si risolva in uno svilimento della persona.
Pertanto, non può sostenersi che la norma costituzionale garantisca e tuteli il credo religioso di chi pratica l’automutilazione del proprio corpo come forma di ascesi mistica o il suicidio come strumento di catarsi, proprio perché, in entrambi i casi, l’annientamento parziale o totale del corpo si configura come atto che ripugna alla coscienza collettiva e all’interesse della comunità, in quanto atto sacrificale, per sua natura non rispettoso dell’integrità fisica e morale del sacrificato, la cui sostanza fisica è vista solo in funzione strumentale rispetto al sacrificio (di cui costituisce l’oggetto o, per meglio dire, un bene di consumo).
Sulla scorta degli stessi principi appare ugualmente immeritevole di tutela il credo religioso che, pur non imponendo ai propri adepti il suicidio come mezzo diretto di ascesi, tuttavia lo preveda come conseguenza indiretta e ineluttabile di pratiche o divieti manifestamente ingiustificati, bizzarri o futili.
È noto, a questo proposito, che i Testimoni di Geova considerano vietata l’emotrasfusione, ritenendo che in alcuni passi del Pentateuco è fatto tassativo divieto di spargere o usare sangue.
Per la verità, i brani biblici cui si fa riferimento fanno divieto di «mangiare la carne con la sua anima, col suo sangue» (Genesi, 9: 3,4). Però, anche argomentando dai passi in cui lo stesso divieto viene espresso in termini diversi (Levitico, 17: 10,14; Atti, 15: 19,20,29 e 21: 25), sembra piuttosto che si tratti di regole dettate per ragioni di igiene alimentare, alla stregua di altre similari, aventi carattere essenzialmente rituale, rinvenibili nelle sacre scritture (si veda, per tutti, il divieto di mangiare carne il venerdì) e in altre religioni monoteiste (si veda la regola del Corano che fa divieto di mangiare carne di maiale).
Né può omettersi la particolare prospettiva storica e sociale dell’epoca nella quale tali regole vennero dettate, epoca in cui la carne costituiva quasi l’unico alimento per l’uomo e in cui la scienza veterinaria e la lotta contro le malattie e le parassitosi animali non avevano propriamente fatto passi da gigante…
Le regole in questione, pertanto, vanno viste come un tentativo di imporre norme di comportamento tendenti a proteggere la comunità e a garantire la sopravvivenza della stirpe.
Del resto, il divieto di trasfusioni di sangue appare assai poco giustificabile se si considera che, da un lato, i Testimoni di Geova non consentono l’uso del sangue per finalità terapeutiche mentre, dall’altro, ammettono l’uso alimentare della carne con la disinvolta giustificazione che essa, dopo la macellazione, ha perduto gran parte del sangue che conteneva.
Effettuare trasfusioni di sangue a un soggetto incosciente (perché, ad es., anestetizzato o in coma) che abbia espresso il proprio rifiuto non significa imporre obbligatoriamente la trasfusione, essendo intuitivo che si ha trattamento sanitario obbligatorio esclusivamente quando il dissenziente non abbia alcuna alternativa rispetto al comando: è necessario, cioè, che il momento coercitivo sia totale e inderogabile e non lasci all’obbligato alcun margine di scelta, come nell’ipotesi del ricovero coatto dei malati mentali o delle vaccinazioni obbligatorie, ovvero nell’ipotesi in cui il dissenziente, per poter rifiutare il trattamento sanitario, dovrebbe, a sua volta, compiere un’azione vietata.
Quest’ultima è l’ipotesi dei detenuti in sciopero della fame, la cui alimentazione forzata avviene non in forza dell’obbligatorietà del provvedimento che la dispone, ma in forza dell’obbligatorietà della custodia (cui il detenuto non può sottrarsi che con l’evasione).
Si tratta, come si vede, di ipotesi anomale in cui la coercibilità del trattamento viene, di solito, giustificata in forza della «garanzia custodialistica»: lo Stato, in sostanza, con la restrizione della libertà personale all’interno della struttura carceraria si assume anche l’obbligo di garantire l’incolumità fisica del detenuto, rendendosene garante nei confronti della comunità. In tal caso, anche i sostenitori del più strenuo garantismo libertario ammettono che, pur in mancanza di un’espressa previsione legislativa, è consentito impedire ogni atto con cui il recluso manifesti una volontà suicida.
Ciò che conta rilevare, quindi, è che il ricovero in ospedale, proprio perché è volontariamente deciso dal paziente (o dai suoi rappresentanti legali), non è equiparabile a un trattamento sanitario obbligatorio, per l’evidente ragione che, non essendo imposta la permanenza all’interno della struttura, non sussiste neppure l’obbligo di subire la terapia in essa praticata.
In conclusione, l’effettuazione delle terapie trasfusionali costituisce espressione del diritto (e, insieme, dell’obbligo) del sanitario e della struttura ospedaliera di praticare le terapie ritenute necessarie, senza per questo imporre al paziente, che con coscienza e volontà dissente, di subirle, potendo egli decidere di allontanarsi.
Da quanto sopra evidenziato emerge, quindi, che il medico può disporre una trasfusione di sangue indispensabile per impedire la morte del paziente in stato di incoscienza, anche contro la volontà del paziente espressa quando egli non era in pericolo di vita.
Questo principio è stato ribadito da una pronuncia della Cassazione che ha respinto il ricorso volto a ottenere il risarcimento dei danni proposto da un testimone di Geova il quale, nel corso di un intervento chirurgico, era stato sottoposto a una trasfusione di sangue per l’aggravarsi dell’emorragia, nonostante al momento del ricovero avesse dichiarato, in ossequio alle proprie convinzioni religiose, che non voleva gli venisse praticato tale trattamento.
La Cassazione, in particolare, ha confermato la pronuncia del giudice di merito secondo la quale il dissenso originario non doveva più ritenersi — con una valutazione altamente probabilistica — operante in un momento successivo, davanti a un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello del paziente ormai anestetizzato.
La questione della necessità di trasfusione ematica nel corso di un intervento chirurgico è stata affrontata anche da Cass. 26-9-2006, n. 20832, e risolta nel senso che il consenso informato non soddisfa un astratto diritto all’autodeterminazione del paziente, ma tutela il diritto dello stesso alle scelte relative alla sua salute, in funzione di una migliore protezione di questo bene.
Pertanto, una volta acquisito il consenso consapevole per l’intervento chirurgico, l’informazione e il consenso per le varie fasi dell’intervento non possono che essere correlati a quelle che implicano una possibilità di scelta e non a quelle che sono comunque obbligate e per le quali il rifiuto del consenso si risolverebbe nel rifiuto dell’intervento.
Il paziente, quindi, ha il diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte; tuttavia, il dissenso, per essere valido ed esonerare il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco e attuale: non è sufficiente una generica manifestazione di dissenso formulata in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure…
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NOTA: L’articolo integrale è stato tratto dal volume “Responsabilità del Medico.Tutela civile, penale e profili deontologici” di Massimiliano Di Pirro, EDIZIONI Simone
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